T. Perna, “Siamo entrati in un’economia di guerra?”
T. Perna, “Siamo entrati in un’economia di guerra?”

[di Tonino Perna, CIRPS, Presidente del Parco Ludico “Ecolandia”] Sentiamo ogni giorno leader politici dichiarare che “siamo in guerra” contro un nemico invisibile e terribile. Adesso anche la Confindustria parla esplicitamente di “economia di guerra” e prevede una perdita secca di 100 miliardi di euro al mese. Non a caso. Va ricordato che è stata proprio la Confindustria ad opporsi strenuamente alla chiusura delle fabbriche e anche adesso le produzioni ritenute necessarie lasciano non poche perplessità (dalle macchine agricole al settore aerospaziale, ecc.). Ma, possiamo definire “economia di guerra” questa stretta alle attività produttive?

Si tratta, in effetti, di una strana guerra, diversa da tutte le guerre della storia umana, che non vede esseri umani schierati gli uni contro gli altri, ma tutti i paesi del mondo lottare, spesso da soli, contro questo nemico comune. Inoltre, non viene distrutto il patrimonio nazionale dalle bombe, ma può essere distrutto dalla chiusura dei mercati, se si protrae a lungo la pandemia. E’ in ogni caso interessante confrontarsi con quello che succede in un’economia di guerra.
La letteratura sulla “economia di guerra” è piuttosto avara e per addetti ai lavori. Spiccano due nomi prestigiosi che si occuparono dell’economia di guerra e le sue conseguenze, nonché le opportunità che si aprono nel periodo post-bellico: Walter Ratnenau e John Maynard Keynes.
Walter Rathenau, grande intellettuale tedesco, fu il primo economista nel ‘900 ad occuparsi degli effetti dell’economia di guerra ed a trarne delle conseguenze rilevanti. Prestigioso manager della grande industria tedesca e ministro della Ricostruzione e poi dell’Esteri nella Germania di Joseph Wirth nel 1921-22, Rathenau ci ha lasciato alcune importanti analisi sulla sua esperienza diretta durante la prima guerra mondiale. Due gli insegnamenti fondamentali, e le indicazioni che ne derivano (vedi: “L’economia nuova”,  Einaudi, 1976).

Il primo è il crollo della globalizzazione dei mercati: “…le esperienze di guerra ci hanno insegnato a produrre dentro il nostro paese un gran numero di prodotti importanti; ma d’altra parte noi, che eravamo abituati a distribuire il lavoro degli operai salariati in vista del mercato mondiale, avremo bisogno nuovamente di un grandioso rivolgimento“. Oggi assistiamo ad uno scenario simile e dovremmo dedurne che lo spazio del mercato comune europeo diventa ormai essenziale e strategico, e che la Ue deve fare un salto di qualità nella sua integrazione istituzionale, economica e sociale. Altrimenti non scompare solo la Ue, ma implodono i singoli paesi.

Il secondo contributo riguarda il ruolo dello Stato: “…la nostra economia di guerra… offre appunto la dimostrazione, se la si osserva rettamente, che i sistemi apparentemente più immutabili possono essere trasformati non in una sola, ma in molte maniere, e che lo Stato, in quanto esso sia opportunamente diretto, può coi suoi organi e le sue istituzioni adattarsi e muoversi efficacemente in ogni campo del lavoro” (pag. 61). In breve, quello che coglie Rathenau nell’analisi dell’economia di guerra è che essa fa emergere l’opportunità di costruire una “Economia Nuova”, fondata su un allargamento del mercato locale, una minore dipendenza dall’export, e un ruolo di pianificazione e di regista da parte dello Stato. Concludendo che “la guerra ha fatto maturare in pochi anni ciò che avrebbe dovuto maturare in qualche secolo” (pag. 68).
Nella famosa Teoria Generale di John Maynard Keynes troviamo, nella parte finale, un saggio dal titolo “How to Pay for the war” (1940), in cui il grande economista si pone il problema cruciale di chi e come finanziare l’enorme sforzo bellico. Anzi, il Cap. IV ha un titolo provocatorio “Si può fare pagare la guerra ai ricchi?”. La risposta di Keynes è: non è sufficiente far pagare solo le classi medie e alte, occorre uno sforzo anche da parte dei redditi inferiori ai 250 sterline l’anno, che era il reddito percepito allora dal 88% della popolazione. Solo che per non colpire la classe lavoratrice, già con un basso livello di consumi, Keynes suggerisce che venga introdotto il salario differito, ovvero che una parte di salario sottratto dalle nuove imposte venga restituito dopo la guerra.

Partendo dal problema di fondo “come finanziare lo sforzo bellico”, Keynes, nell’anno in cui la Gran Bretagna entrava nella seconda guerra mondiale, cerca di trovare una soluzione che concili la ripartenza dell’economia post-bellica con la giustizia sociale.
E conclude sulla stessa scia di Rathenau che: “riusciremo così a cogliere l’occasione della guerra per realizzare un progresso sociale positivo” (pag.563).
Ed è questo il messaggio che oggi sta arrivando da varie parti, e che su questo giornale hanno espresso, tra gli altri, Guido Viale e Piero Bevilacqua, sul piano soprattutto della grande occasione per una conversione ecologica della nostra economia. Ma senza una redistribuzione dei redditi, senza giustizia sociale, la guerra contro il Coronavirus la vinceranno ancora una volta gli speculatori di Borsa, i rentier, i privilegiati da questo modo di produzione.

5 aprile 2020